TRATTO DAGLI SCRITTI DI GIACINTO FALSETTI

AFRICA 1942

Abbiamo da poco lasciato la Tripolitania lasciando dietro di noi tanti morti ammazzati caduti inutilmente per una guerra assurda ed inutile voluta dal fascismo. L'unica via di scampo, anche se di breve durata, è la Tunisia.
Tre armate potenti e con armi moderne ci inseguono come lupi, la nostra sorte è segnata, ma Mussolini ed Hitler hanno ancora tanti biglietti da staccare per l’altro mondo.
I camerati tedeschi che operano con noi in Africa, cadono anche loro l’uno sopra l’altro imprecando contro Hitler, ma il criminale è sordo.
Americani, Inglesi, Francesi fanno la guerra di dietro guardia usando per battistrada un enorme massa di truppe di colore, carne selvaggia e di poco prezzo ma feroci assassini senza onore e senza dio.
I Francesi, anche loro mercanti di pelle nera, hanno il fronte più temuto in quanto hanno aggiunto una divisione della legione straniera, un misto di disperati, venduti, senza patria nè bandiera. Sono barbaramente addestrati e preferiscono il pugnale. Veri specialisti in agguati a sorpresa. Lo svolazzare di una allodola può segnalare la loro presenza. L’ululato di uno sciacallo o il ruggito di una tigre, spesso imitati, sono segnali fra di loro, perciò tutto va trattato con cautela.
I soldati italiani sono scarsamente addestrati e privi di armi moderne da competere con tre potenti bene addestrati, difendiamo la nostra pelle con vecchi archibugi, la maggior parte residui della guerra 15-18. Cantare vittoria, come vuole Mussolini, sono gemiti di pazzi, specie quando la campana suona gli ultimi rintocchi di speranza perduta.
Siamo alla vigilia di Natale 1942, da due settimane in Tunisia.
Le tre armate avversarie hanno stretto intorno a noi una morsa a ferro di cavallo, la sola parte ancora libera è il mare, sorvegliata giorno e notte dagli aerei americani che ci ostacolano i rifornimenti.
Per poter sopravvivere siamo costretti a razziare come belve il bestiame dei coloni tunisini, aggiungendo ancora altri nemici, più pericolosi dei primi, che per rappresaglia minarono l’unico acquedotto ancora in mano nostra. Dei pochi pozzi esistenti la maggior parte erano a secco. Dei restanti alcuni erarno stati avvelenati e nessuno di noi sapeva quale era quello buono. Fu un calvario, sull'orlo della disperazione sfiorammo la pazzia in una terra ardente e disperata, anch’essa vittima di una guerra inutile voluta dal fascismo.
Il 23 dicembre, da un aereo della croce rossa, ci buttarono giù milioni di volantini offrendoci una settimana di tregua.
Il 24 notte fui mandato di pattuglia insieme ad altri cinque, il compito era di sorvegliare l’unico ponte su un fiume salato. Ci infilammo in uno stretto canaletto naturale fatto a serpentina, avevamo tute mimetizzate e scarpe felpate e come armi mitragliette col silenziatore e con l’ordine di usarle solo se attaccati per primi, ordini che in guerra vengono rispettati in parola ma nei fatti il comportamento è diverso.
Giunti ad una curva a "S" ci imbattemmo in una pattuglia nemica e per nostra fortuna da ambo le parti eravamo di razza bianca. Per un attimo, malgrado la tregua, prevalse la diffidenza e in silenzio continuammo a guardarci in cagnesco. Fu una fortuna che nessuno fece una mossa sospetta, ne da una parte ne dall’altra; Infine fu il nostro sergente a rompere il ghiaccio augurando buon Natale. Dalla pattuglia nemica, il capo, un caporale americano, ci rispose in italiano e come segno di intesa bevemmo tutti alla stessa borraccia.
Fu un incontro pericoloso e sospettoso dall’inizio alla fine, ma infine prevalse la fede perché tutti figli dello stesso dio. Ci scambiammo sigarette ed altri ricordini e tutti insieme maledicemmo la guerra. Da buoni cristiani ognuno fece ritorno al proprio comando per ritornare il 29 sul campo di battaglia a continuare a scannarci come cani. GIACINTO FALSETTI –AFRICA 1942-

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